giovedì 19 aprile 2012

I cani lo sanno

I cani lo sanno: Andrea Scanzi e l’elogio dello sguardo rasoterra

Se amate i cani, questo è il libro che fa per voi. I cani lo sanno (Feltrinelli) di Andrea Scanzi arriva dritto fino a quel pezzetto di cuore che vibra al ritmo di una scodinzolata. Commuove, coinvolge, consola. Se i cani vi lasciano indifferenti o, peggio, preferite l’amicizia più discreta e fiera di un felino, allora cominciate dal fondo. Curiosate fra le righe dell’indice analitico: potreste scoprirvi i germi di una appartenenza ancora più profonda.

È forse il primo indice analitico divertente della storia, che nello stesso tempo disegna un percorso semiserio lungo una costellazione di persone e animali, artisti, amici, tennisti e bevitori, tra riferimenti colti e svisate pop mischiati con allegra sfrontatezza. Da Joseph Ratzinger a Marco Ferradini, per intenderci, da Gran Torino a Lost. Da Diogene di Sinope a Jacques Prevert. Dall’amico Edmondo Berselli a Jonathan Safran Foer. Da Pippo che sfancula Topolino a Seamus, il cane dei Pink Floyd. Ma è nel gioco delle citazioni nascoste che ho riconosciuto un familiare orizzonte: Gaber, De André, Paolo Conte, Rino Gaetano. E anche nel nome Tavira, località dell’Algarve che diede i natali a un eteronimo di Pessoa.


I cani lo sanno è un libro ricco di fisicità e allo stesso tempo di “leggerezze dette a piena bocca”. Tavira e Zara, le due labrador nere protagoniste del triangolo che costituisce il corpus della narrazione, non sono soltanto amate conviventi e simbiotiche compagne di vita – fame atavica-odore di pongo-poderose deiezioni – ma il “passe partout per un’idea accessibile e accettabile di redenzione”. Sfidando il luogo comune, Scanzi si getta a esplorare un linguaggio senza alfabeto.

La comunicazione uomo-cane si fonda sul non detto e sullo sguardo. Ma abituarsi è pericoloso, va a finire che si perde l’allenamento con quella “vagamente affettuosa ipocrisia che è poi il nostro linguaggio universale”. Invece il cane osserva, sempre. Osserva un campionario umano dal pedigree che sembra inventato da un demiurgo ubriaco (il catalogo dei padroni è irresistibile). E redime ogni giorno i vuoti affanni del suo signore. Dopo aver ”elevato la quotidianità a capolavoro giornaliero”, prende su di sé il dolore. Soffre al posto tuo per farti stare meglio. Muore la tua morte in anticipo.

Fra un tergicristallizzare di code e una liturgia del bisogno corporale, ecco la mistica dei martiri slinguazzanti, meringhe con le zampe e trojan horse dei ricordi indelebili. Così il capobranco Scanzi trasferisce su carta il potere immaginifico della parola, la suggestione dell’onomatopea metafisica. Non c’è mai un aggettivo di troppo, anzi il periodare secco e conciso risucchia nel suo alveo componendo i tasselli di vita in tanti quadri musicali. Come un album di istantanee folgoranti (”l’uomo è un gatto che ha bisogno di un cane per vivere”), libera emozioni sepolte sotto le coltri del quotidiano. A beneficio di tutti, perfino degli sfortunati allergici al pelo degli animali.

Grazie ai cani che sono “portatori sani di filosofia”, e alla confidenza immediata che mettendo a nudo se stesso lo scrittore aretino “impone” al lettore, l’elogio dello sguardo rasoterra contagia facilmente tutti.


fonte: blog.panorama.it

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